Il concetto di “aggregazione” mi è sempre piaciuto. Lo trovo profondamente diverso da altre parole che, almeno all’apparenza, vogliono esprimere concetti simili che però secondo me sono estremamente diversi.
Penso ad “associazione” per esempio. Associare non è aggregare, ma rendere qualcosa vicino a qualcos’altro attraverso un legante, che può essere un concetto, un’idea o una spiegazione postuma.
Oppure c’è “inglobare”, parola che certamente si discosta per la natura stessa dell’avvicinamento dei due elementi, dove l’uno confluisce inevitabilmente nell’altro suggerendo che, forse, qualche elemento chiave potrebbe diluirsi nel passaggio.
“Unire” è un’altra bellissima parola, ma che al pari delle altre secondo me si allontana dal concetto di aggregazione. Unendo si rende “uno” qualcosa che prima era “due” o più. Concetto senz’altro affascinante ma complesso e per molte ragioni controverso.
L’aggregazione è un’altra cosa. È il mettere insieme persone, o cose, con l’intento di mantenere salda l’individualità di ognuna ma allo stesso tempo porre in sinergia le qualità di tutti.
Ho sperimentato queste riflessioni più volte all’interno delle mie aziende, verificando con i miei occhi che l’aggregazione tende a generare risultati maggiori dell’unione o dell’associazione.
Sul piano strettamente umano trovo che l’aggregazione sia il segreto della vita degli esseri viventi. È qualcosa che facciamo da sempre: ci aggreghiamo per mettere a servizio le nostre capacità nei confronti di un obiettivo più alto, più facilmente raggiungibile in gruppo che da soli.
Ma aggregarsi non significa solo questo, bensì anche, e soprattutto, avere cura e rispetto delle qualità e delle caratteristiche dell’altro, concetto che penso si sia un po’ perso nella nostra epoca.
Riconoscere le qualità dell’altro è un passo molto complicato per le persone, perché sottintende la capacità di ammettere i propri limiti nel riconoscimento delle virtù degli altri. Significa riconoscere, per esempio, che in un determinato campo tu sia più bravo di me e per quanto io creda nel mio lavoro, è giusto che quel determinato compito sia tu a svolgerlo e non io.
Allo stesso tempo il riconoscimento è un onere che spetta agli altri nei tuoi confronti, e sul quale devi giustamente rivendicare le tue abilità e il fatto che esse abbiano un riscontro nel gruppo di pari che insieme a te lavora a un determinato progetto.
Per farla breve, “aggregare” cose e persone in un programma lavorativo non è difficile tanto nell’azione, quanto nello svolgimento, quando cioè emergono dinamiche che possono destabilizzare l’equilibrio del gruppo.
Il compito di un bravo imprenditore è far leva sulle virtù più alte dei collaboratori che ne fanno parte, e non sugli istinti più bassi come il “carrierismo” o la competitività massima. Come più volte spiegato nei post precedenti trovo che questo sia un concetto sorpassato che ormai, nel mercato degli anni Venti del nuovo millennio, tende lentamente ma inesorabilmente alla sua stessa fine.
So che questi concetti possono apparire fumosi e difficili da comprendere di primo impatto, sopratutto per la loro tendenza a sembrare superficiali e, forse, retorici. Per questa ragione ritengo sia opportuno fare un esempio legato alla vita reale e in particolar modo, contesto assolutamente calzante, a quella scolastica.
Immaginiamo una classe liceale. Essa sarà composta da elementi diversi e assolutamente unici fra loro che, in linea di principio, intraprenderanno un percorso accademico autonomo che nulla avrà a che vedere con quello degli altri.
In questo scenario il professore avrà un ruolo chiave perché, prescindendo dal sentiero personale dei suoi alunni, gestirà la tipologia di interazione didattica degli studenti fra loro.
Vien da sé che potrà adottare un approccio competitivo, come spesso avviene nel contesto anglosassone per esempio, oppure, appunto, aggregativo.
Nell’approccio competitivo ognuno degli studenti concorrerà, esplicitamente o implicitamente, a raggiungere il risultato più alto possibile.
Ma qual è il risultato più alto possibile in un approccio competitivo? Quello che supera gli altri. La sua vetta è quindi intrinsecamente stabilita dal limite degli altri studenti. Se per una determinata verifica il voto massimo ottenuto da un’alunna o un alunno sarà 7, sarà sufficiente ottenere 8 per “vincere” il challenge.
Ma questo non è stimolare gli studenti a dare il massimo, bensì a superare gli altri, sperando quindi in maniera costante che i propri colleghi abbiano delle debacle nel percorso.
Viceversa, l’approccio aggregativo si applica quando un professore assegna un compito collettivo alla classe, come un progetto di ricerca che richiede l’approfondimento di tematiche diverse interconnesse fra loro.
In questo modo gli studenti saranno “costretti” a collaborare pur rispettando le inclinazioni e le competenze di tutti. Quelli più inclini alle materie scientifiche si impegneranno nello studio delle implicazioni tecniche del progetto. Quelli più avvezzi alle materie umanistiche, per esempio, si dedicheranno ai risvolti filosofici, sociali, o storici.
In questo senso l’obiettivo di riuscita non sarà un voto individuale, ma il raggiungimento dell’obiettivo unico collettivo: la qualità del progetto stesso.
Ciò significa che in questo caso il paradigma sarà opposto al precedente, perché ogni studente spererà nell’eccellenza dell’altro, non nella mediocrità, e allo stesso tempo sarà spronato a fare lo stesso nel suo ambito.
Nel mondo professionale che vedo, avviene la stessa cosa: la logica di profitto non può che essere legata a quella dell’aggregazione, al fine di raggiungere risultati più complessi, percorrendo strade più articolate e avvalendosi di competenze più approfondite che lavorano in modo sinergico fra loro.