Chiarisco: non è una richiesta, ma la volontà di riflettere su un concetto che imprenditorialmente ha diverse facce e non tutte di immediata comprensione.
Che cos’è un “aiuto”?
Dice la Treccani: “Aiuto: Opera o mezzo con cui s’interviene a levare qualcuno da una difficoltà.”
Verissimo, ma non del tutto esaustivo.
Nella routine delle imprese l’aiuto è una costante indefinibile, che spazia da quello finanziario (capitali immessi per sostenere l’azienda o veicolati per supportare uno specifico asset nella sua crescita) a quello operativo (l’aiuto tecnico verso i dipendenti, o fra colleghi).
Ma nel mezzo c’è una serie praticamente infinita di attività che concretizzano quell’aiuto, che possono renderlo efficace oppure meno, o addirittura deleterio, in certi casi.
Per spiegarmi meglio desidero portare un esempio: immaginiamo un nuovo ingresso all’interno dell’eco-sistema azienda, una figura che si occupa di una specifica mansione e che ricopre questo ruolo da anni ma che non l’aveva mai fatto per il settore in cui opera l’impresa dove lavora adesso.
Ovviamente la persona sarà spaesata, avrà bisogno di tempo e supporto per imparare le procedure, per assorbire la filosofia aziendale, per condividerne gli obiettivi etc.
Proprio per questo è previsto un classico periodo di “training”, che altro non è se non quello che un tempo veniva definito “affiancamento”: persone più esperte che insegnano quello che sanno a persone meno esperte.
Immaginiamo che lo “sponsor” del nuovo entrato sia una figura particolarmente accomodante, di quelle disposte a tutto per aiutare i propri colleghi, che si spende come e più di altri e che sembra avere una pazienza praticamente infinita per i rallentamenti e le difficoltà fisiologiche di chi si affaccia a un lavoro per la prima volta.
Ecco, questa persona ci apparirà il prototipo della figura perfetta per l’affiancamento: serio, competente, disponibile, paziente.
Andiamo avanti nell’esempio: passa un mese, ne passano due, ne passano tre. Il responsabile effettua un check di avanzamento sullo stato dei progressi che dovrebbero portare il nuovo arrivato dallo status di junior a quello di senior e, non senza sorpresa, si accorge che nonostante un rilevante livello di erudizione sui concetti base e sulla teoria, la persona non è ancora perfettamente autonoma. Nemmeno sulle azioni di base, i task quotidiani.
Cosa è successo? Cosa è sfuggito all’azienda nel mezzo?
Tutto appare piuttosto strano, dal momento che per la new entry era stato messo a disposizione tutto quello che potesse essergli utile, in termini di strumenti, per responsabilizzarsi il prima possibile e con soddisfazione.
Il supervisore a quel punto decide di indagare con maggiore solerzia, e scopre che la nuova figura fatica a inserirsi per un motivo molto semplice: il suo sponsor, in buona fede, ha “abusato” della propria dote di altruismo e, di fatto, sin dal giorno uno non ha mai smesso di svolgere pratiche al posto del nuovo arrivato.
In poche parole i due non erano mai usciti dalla fase uno dell’”affiancamento”, quella in cui chi impara guarda, e chi insegna svolge.
Un training efficace non può mai prescindere dalla fase due, alla quale si arriva attraverso una serie di step intermedi, dove la conclusione è che chi impara svolge, e chi insegna guarda.
Perché è importante: per motivi banalissimi. Chi sta imparando un nuovo lavoro ha bisogno di toccare con mano l’attività routinaria per farla sua, e per assorbire i processi è necessaria la ripetizione, della ripetizione, della ripetizione.
Lo sponsor deve essere un veicolo di trasferimento di informazioni e di supporto, ma non deve mai e poi mai sostituirsi nell’operatività fattiva se non nella prima fase, quella in cui – gioco forza – la nuova risorsa non ha i mezzi per muoversi in autonomia.
L’assenza della fase due porta infatti a una situazione di stallo, o di “loop” per usare un termine più moderno, dove l’insegnante continuerà ad infinitum a svolgere funzioni che lo “studente”, ormai vero e proprio veterano dell’affrancamento, dovrebbe fare da solo.
A cosa è dovuto questo errore così frequente nelle aziende?
Non solo all’assegnazione del training a uno sponsor particolarmente volenteroso. O meglio, anche se il problema è quello, significa che c’è alla base una pianificazione errata o incompleta di quello che dovrebbe essere un programma ben organizzato di training per i nuovi arrivati.
Nelle aziende più piccole il problema è spesso legato a motivi diversi però, del tutto simili a quelli che, per esempio, incontriamo nello scenario di passaggio generazionale: titolari che fanno fatica a delegare gli aspetti più sensibili di una mansione e preferiscono mantenerne una forma di “controllo” a monte o a valle, di fatto vanificando tutto il training che non trova mai compimento in una piena autonomia di chi dovrebbe, al posto del titolare, preoccuparsi di specifici lavori.
In sintesi, quello che è importante capire è che l’”aiuto” non è soltanto un approccio che meccanicamente prevede un intervento volto ad aiutare, nel senso letterale del termine, una persona.
Questo può accadere ma non è una definizione universale, almeno nel mondo delle imprese. In questo ambito molto più spesso l’aiuto consiste nella responsabilizzazione, nella razionalizzazione e comprensione delle difficoltà. Un nuovo collaboratore, estremizzando, è bene che certi problemi li viva e, in modo controllato, possa imparare a gestire delle piccole crisi senza adagiarsi sul fatto che qualcuno, prima o poi, toglierà le sue “castagne” dal fuoco.
E questo è probabilmente l’aiuto più grande che potremo dare alla sua carriera, e indirettamente alla nostra stessa azienda.