Da parecchio tempo circola nel web il famoso discorso di Bryan Dyson, ex CEO di Coca-Cola, e della sua metafora sulle “cinque palline” (ps: si, quello che viene attribuito al CEO di Google Pichai, ma è una bufala, lo pronunciò Dyson moltissimi anni prima).
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, sintetizzo: sostanzialmente Dyson in uno dei suoi discorsi nelle riunioni plenarie intervenì con un lungo discorso, al cui termine raccontò una storia con una morale sottaciuta: la storia delle cinque palline.
In buona sostanza, esortava i suoi dipendenti (e, per estensione, chiunque graviti nel mondo del lavoro) a pensare alla propria vita come a cinque palline, le quali a loro volta rappresentano la salute, la famiglia, gli amici, l’anima e, appunto, il lavoro.
Dettaglio: solo una pallina su cinque è di gomma. Quella del lavoro. Le altre quattro sono di vetro.
Dovendo maneggiare le cinque palline per tutta la propria vita, è fondamentale averne cura ed evitare che cadano a terra. Almeno, per quanto riguarda quello di vetro.
Il motivo è semplice: la pallina di gomma, il lavoro, cadendo rimbalzerà e tornerà a saltare di nuovo. Metaforicamente parlando, quindi, perdere il lavoro genera comunque la possibilità di “saltare” dentro a un’altra occupazione.
Ma per quanto riguarda le palline di vetro, quelle dell’amicizia, dell’anima, della famiglia e della salute, una distrazione può essere fatale. Il vetro, cadendo, si infrange, e rimetterlo a posto è tutt’altro che scontato.
La morale è quindi quella di prenderci cura della nostra vita ponendo attenzione sugli aspetti importanti, ricordandoci quali sono le cose insostituibili e quali invece quelle “plastiche”, più versatili e in qualche modo intercambiabili.
La seconda morale, la cui forza se vogliamo è ancor maggiore perché a dirla è proprio il CEO di una multinazionale ai propri dipendenti, è che il lavoro non deve essere l’unica ragione di vita ma anzi deve essere inquadrato in un progetto di più ampio respiro, dove le vere colonne portanti sono gli affetti.
In qualche modo il suggerimento è quello di imparare a gestire il proprio tempo in modo corretto e riservare a se stessi una porzione di spazio adeguata.
Quando ho letto questa storia ci ho riflettuto molto, non foss’altro perché a conti fatti sono esattamente i principi nei quali credo di più, quelli su cui ho fondato tutta la mia carriera e le mie ambizioni professionali, personali ma anche e soprattutto di gruppo.
Perché credo così tanto in un approccio che tenga conto del “tempo” inteso come valore prezioso?
Perché ritengo sia realmente l’unico modello di business davvero sostenibile, mentre tutti gli altri sono destinati a implodere o ad esaurirsi nel giro di pochi cicli.
Abbiamo tutti assistito per esempio all’ascesa del modello anglosassone, della competitività e della “full-immersione Philosophy” degli imprenditori d’oltreoceano. Modello corroborato da una narrativa accattivante e cavalcata da film e libri che dipingono il lavoratore moderno come una specie di “macchina”, competitivo oltre ogni immaginazione e capace di sacrificare tutto il tempo a sua disposizione pur di raggiungere i propri obiettivi.
Un modello che, in media, raccoglie anche il favore del pubblico poiché, al netto degli estremi, viene comunque giudicato onorevole lavorare in misura maggiore dello standard. Cosa che di per sé potrebbe anche non essere sbagliata, ma che a conti fatti porta ad un unico risultato: l’insuccesso.
Per la mia esperienza infatti nella stragrande maggioranza dei casi il raggiungimento di un obiettivo lavorativo non è mai un problema di tempo, ma di organizzazione.
Le persone, gli imprenditori in particolare ma non solo (perché questo discorso vale anche per chi è dipendente), hanno un problema nella gestione qualitativa del proprio tempo in ufficio. Per sopperire a questa mancanza, puntano tutto sulla qualità.
Questo sforzo ha dei costi, ulteriori a quelli del mero dispendio di energie. Le giornate non smettono infatti di durare ventiquattro ore e quando si passa la maggior parte del proprio tempo in azienda, o comunque in attività legate ad essa, a farne la spesa sono la famiglia, gli amici, lo svago e, per vie traverse, la salute stessa (ricorda: non esiste nemico peggiore dello stress, per il tuo organismo).
Quando questo sacrifico supera poi una soglia accettabile di sopportazione, gli aspetti della vita che hai così a lungo “stressato” iniziano a rompersi. I rapporti famigliari diventano complicati, gli amici ti abbandonano, la tua mente non viene più nutrita a livello creativo perché non hai hobby o non ti concedi momenti di pausa, e non pensare che la tua pressione sanguigna sia felice dei tuoi strapazzi e della tua alimentazione rapida e poco nutriente.
Mi domando come può mai uno scenario del genere, restare in ambito professionale, favorire anche solo di poco il raggiungimento di un successo lavorativo. Semplicemente non è possibile e se accade non è destinato a durare, è costruito su un castello di carta, troppo precario e impreciso.
L’unica strada è la piena realizzazione di se stessi nell’accezione più pura, nella condivisione con i propri affetti e nell’equilibrio del cervello e dell’anima. Una distribuzione razionale del proprio tempo che non generi “ammanchi”, perché la coperta non è vero che è troppo corta, ma solo mal distribuita.
E soprattutto, mai come ora è importante ribadire che ogni traguardo non può che essere collettivo, mai personale. Perché più grande è la casa che stai progettando, più saranno le colonne di cui avrai bisogno per sorreggerla. Sempre.