Sta facendo scalpore un fenomeno che in America ha iniziato a prendere piede nella seconda metà del 2021, quello della “Great Resignation”, come lo chiamano loro, o “Grandi Dimissioni”, come è stato ribattezzato nel nostro Paese.
In pratica negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo in generale, si sta verificando una tendenza del tutto atipica dal punto di vista professionale: le persone si stanno licenziando.
Ma attenzione, non una quota trascurabile, milioni in tutto il Paese e fuori dal territorio nazionale. Un fenomeno che analisti ed esperti faticano a circoscrivere all’interno di una dinamica chiara, poiché le variabili che insistono sulle motivazioni che spingono le persone a lasciare il proprio lavoro sono moltissime.
In linea di principio, la Great Resignation sta riguardando lavoratori dipendenti di società più o meno grandi, che svolgono ruoli di prestigio variabile e che godono di salari assolutamente trasversali. In pratica l’unica costante che sembra essere palese fra tutti casi descritti è il fatto di aver sottoscritto un contratto per un’impresa che non è la propria. In altre parole, dalle società stanno “fuggendo” i dipendenti (anche di alto livello, come manager e dirigenti) e non i titolari.
Tutto questo fra l’altro nulla ha a che vedere con la cosiddetta prospettiva di vita alternativa, nel senso che le persone non stanno rassegnando le dimissioni a fronte di un lavoro migliore o più in generale di un lavoro diverso da quello di provenienza. Anzi. Statisticamente il fenomeno delle grandi dimissioni sta riguardando donne e uomini che non hanno un vero e proprio piano b.
E allora cosa spinge cittadini di tutto il mondo a lasciare il “certo”, talvolta anche molto ben pagato, per “l’incerto”?
Chi sembra cominciare ad avere una linea guida per la risposta a questo quesito sono gli psicologi e gli antropologi, che attraverso numerosi studi, seppur necessariamente oggi ancora embrionali, testimoniano una realtà piuttosto evidente: le persone cominciano a subire il peso del lavoro subordinato. Degli orari prefissati. Degli obiettivi da raggiungere che non attengono a una sfera di interesse diretto ma appaiono principalmente come “sogni di qualcun altro”.
In altre parole i dipendenti, americani e non, hanno iniziato a riprendere in mano le proprie vite valutando come percorribile l’alternativa autonoma, più libera dai confini delimitati dai vincoli aziendali, rispetto alla strada subordinata, legata a logiche di produzione che sembrano oggi pesare molto di più di quanto facessero prima.
Le motivazioni all’origine di questo fenomeno sono molte, e appare piuttosto evidente che in questo senso la pandemia abbia giocato un ruolo fondamentale. Nei due anni e mezzo di lockdown alternati le persone hanno avuto modo di riassaporare il valore del tempo di qualità, da poter dedicare magari alla propria famiglia, così come il valore di lavorare da casa e vivere un’esistenza professionale lontana dagli stress della routine da ufficio, fatta di spostamenti quotidiani, traffico e rapporti sociali con persone con cui spesso non si va d’accordo.
È chiaro che in uno scenario del genere molte persone abbiano iniziato a fare valutazioni diverse.
Dall’altra parte ci sono i giovani che, pandemia a parte, sono cresciuti con modelli professionali spesso lontani dalla reale situazione economica, fatti di grandi successi e soddisfazioni finanziarie che all’atto pratico sono difficili da realizzare.
Molti studi confermano infatti che il salario minimo mediamente è raro che soddisfi il fabbisogno di un lavoratore o una lavoratrice se non abbinandoci una sostanziale fiducia nella crescita professionale all’interno del proprio settore, crescita che – se tardiva o non realizzata – va a esasperare una forma di insoddisfazione per il proprio trattamento economico, e l’insoddisfazione diventa rapidamente frustrazione.
In ultimo c’è il mito del “self-Made”, di nuovo di gran moda nell’epoca del lavoro da remoto, delle cryptovalute e dell’imprenditoria “di se stessi”. Molti pensano di poter raggiungere l’indipendenza economica costruendo la propria impresa in breve tempo, sfruttando il potenziale della rete e dei servizi ad essa connessa, in modo da diventare dei nuovi Elon Musk in pochi mesi e senza muoversi da casa.
Inutile dire quanto questo scenario sia lontano dalla realtà, ma a prescindere da questo quanto tale fenomeno possa essere letto sotto una lente completamente diversa.
Quello del lavoro, infatti, è un mercato come tutti gli altri, dove i dipendenti sono a tutti gli effetti i “clienti” di quel mercato.
Il fenomeno della Great Resignation ci sta dicendo che in questo momento il mercato del lavoro sta generando clienti insoddisfatti. Dove le condizioni di lavoro non rispecchiano i reali bisogni di chi lo svolge, e quindi si genera una dinamica che non può essere congedata come una “leggerezza” dei lavoratori ma come una mancanza, anche grave, da parte di chi il lavoro lo crea, ossia gli imprenditori.
All’interno del metodo IOI ho sempre dato grande spazio alla felicità dei dipendenti di un’azienda come punto fondamentale per la crescita e il successo dell’impresa, ove la felicità non sia solo soddisfazione economica, che comunque è fondamentale, ma che sia soprattutto crescita professionale e percezione di lavorare a un’ambizione collettiva della quale si fa parte concretamente e non soltanto come “numero senza nome”.
Le “Grandi Dimissioni” sono destinate a durare? Non credo. È probabile che il fenomeno vivrà una naturale contrazione e si arresterà, come molti scenari simili del passato. L’augurio però è che a non arrestarsi sia il “risveglio” degli imprenditori su un nuovo modo di gestire il proprio capitale umano, e insegnare ai propri collaboratori che per “fermarsi” e vivere il proprio tempo di qualità non è necessario abbandonate un lavoro di buone prospettive, ma solo dedicare le proprie energie ad una azienda che riconosca quel valore e metta in atto precise politiche per assecondarlo.