All’inizio degli anni Ottanta in America si fece largo un movimento che si potrebbe definire sia culturale che sociale, e che riguardava principalmente i giovani professionisti tra i 25 e i 40 anni, cresciuti con il mito della ricchezza e del successo. Questo fenomeno venne chiamato Yuppismo.
Lo Yuppismo aveva delle caratteristiche ben precise, si riferiva infatti a persone che avevano abbracciato in pieno le potenzialità del capitalismo e del boom economico di quegli anni.
Si trattava di persone che abitavano in grandi centri urbani come Manhattan e che avevano l’ambizione di fare carriera nel mondo della finanza e della Borsa.
Man mano il concetto si estese a tutti gli ambiti del mercato, cominciando a riguardare tutta l’imprenditoria in generale.
Anche in Italia lo Yuppismo ebbe un suo sviluppo. I modelli erano gli stessi, dove in America c’era Trump, allora magnate della finanza ancora lontano dalla politica, qui c’era Gianni Agnelli.
Anche qui, nel tempo, si concretizzò una cultura del lavoro che vedeva l’imprenditore come un individuo completamente focalizzato sulla propria carriera, sulla crescita d’impresa, sui risultati e sul successo.
Mentalità che senza dubbio pagò almeno dal punto di vista dei risultati, nella misura in cui nacquero aziende in grado di crescere piuttosto velocemente (complici anche le particolari congiunture economiche favorevoli dell’epoca) facendo così la fortuna dei loro creatori e aiutando a perpetrare la convinzione che per ottenere un successo bisognasse sacrificare qualsiasi cosa all’altare del lavoro.
Questo paradigma in realtà non ha mai smesso di esistere, ma si è limitato a evolversi in base alle epoche, al mercato, ai nuovi scenari imprenditoriali.
Oggi come allora, con una solida influenza proveniente da oltreoceano che sforna quotidianamente “miti dell’economia” in grado di generare flussi considerevoli di denaro grazie a sacrificio e dedizione, siamo sempre più convinti che il successo di un’azienda passi per lo sforzo sovrumano di chi vi lavora all’interno, e che sia impossibile raggiungere un traguardo senza concentrarsi interamente, maniacalmente, esclusivamente sul lavoro.
Con buona pace dei favolosi anni Ottanta, chi scrive ritiene che questo sia un modello finito ormai da tempo.
La narrativa dell’imprenditore stakanovista che non ha tempo per la famiglia, per i figli, per gli hobby, ma solo e soltanto per il fatturato, è una deriva tossica di un mito (più “cinematografico” che altro) che ha smesso di esistere, o almeno ha smesso di essere efficace.
Il lavoro che diventa “la vita” (e viceversa) è una dinamica possibile, certo. Anzi, si potrebbe dire che sia la dinamica per eccellenza cui va incontro chi apre un’azienda e si affaccia sul mercato. Tuttavia possiede un vizio di forma che la maggior parte delle persone non vede.
Quando un imprenditore dedica tutto il suo tempo al lavoro, tutta la sua vita ai traguardi professionali, non sta trovando modi per diventare più ricco. Sta solo aggiungendo ore di sacrifico. Nella speranza che più ore dedicherà, più i suoi obiettivi diventeranno raggiungibili.
Dimentica però che il tempo di una giornata lavorativa ha un termine, che per quanto possa essere diluito non può comunque essere cancellato.
Le giornate finiscono, per farne iniziare altre. I risultati che puoi raggiungere in quel lasso di tempo, o nella somma di tutti quei “lassi”, sono limitate al fattore tempo.
Per la legge dei grandi numeri, dunque, su un monte temporale da te dicato al lavoro di, diciamo, 2.000 ore, i risultati che otterrai saranno maggiori in maniera IRRILEVANTE rispetto a quelli che avresti ottenuto lavorandone 1.700.
Questo avviene perché all’aumentare del tuo tempo lavorativo aumentano anche una serie di variabili sabotanti: quanto sei efficace, lucido e competente quando lavori a un massimo di pressione? Quanto la privazione di sonno, svago, tempo di qualità con i tuoi affetti, possono incidere sul tuo operato?
Ovviamente non puoi rispondermi, perché la tua mente è convinta che la strada dell’iper-lavoro sia l’unica percorribile per raggiungere i tuoi obiettivi. Se mi rispondessi, mi diresti che sotto pressione lavori anche meglio, che con la famiglia sei ben organizzato, che gli hobby oggi non ti interessano perché preferisci sacrificarti ora e goderti i frutti domani. Eccetera eccetera.
Solo che quel “domani”, in realtà, non esiste.
Non esiste perché questo approccio al lavoro è soggetto ad assuefazione, ossia rende quasi impossibile, per chiunque, slegarsi dal circolo vizioso del sacrificio – risultati – sacrificio – risultati.
In secondo luogo si autoalimenta: se non raggiungi gli obiettivi tenderai a lavorare ancora di più.
Infine, la rincorsa al successo è la strada principale che porta all’insuccesso, perché fin tanto che resti concentrato su di te, su quello che sei convinto sia meglio fare per la tua azienda, su quanto sia “onorevole” lavorare fino allo sfinimento, non riuscirai a vedere che per incrementare il fatturato è la logica del lavoro che devi cambiare, non la quantità di esso.
Ho dedicato, e dedico tuttora, tutta la mia vita allo studio e all’applicazione di metodi che razionalizzino il tempo lavorativo di un imprenditore e moltiplichino la sua efficacia, facendo leva sullo sforzo collettivo (anziché individuale) e dimostrando che una corretta gestione del proprio tempo, che tenga conto di valori primari come gli affetti, i legami personali, lo sport e lo svago, porta in realtà dei benefici anche alla qualità del lavoro stesso, rendendo possibile operare più lucidamente, facendo scelte più lungimiranti, in grado di produrre vantaggi più rapidi e addirittura maggiori di quanto si credesse possibile.
Argomento ampio, ci torneremo.
Al prossimo articolo e grazie del tuo tempo!