Ho sempre pensato che viaggiare sia la fortuna più grande che una persona è in grado di sfruttare. Ritengo il “viaggio” un concetto molto più ampio rispetto al semplice spostarsi, visitare posti nuovi o vivere qualche giorno di relax.
Viaggiare è a tutti gli effetti un’esperienza totalizzante, in grado di arricchire chi la vive in modi spesso insperati. E, cosa ancora più importante, il viaggio è tutt’altro che rilassante, poiché inizia con una dinamica opposta: il trauma.
Stabilirsi in un posto diverso per un po’ di tempo significa infatti staccarsi dalle proprie abitudini, dai propri riferimenti e da quelli che il cervello registra come “punti di aggancio” alle nostre sicurezze. Di fatto si esce dalla propria zona di comfort per raggiungere un luogo privo di appigli in questo senso, e questa dinamica è invariabile per tutto il tempo di permanenza.
Per questa ragione, e solo in questo senso ovviamente, parlo di “trauma”.
E cosa succede quando una persona si separa dalla propria area confortevole?
Che si adatta. Apre gli occhi, esplora, scopre e immagazzina nuovi input, informazioni impossibili da ricevere senza uscire dal proprio guscio.
Nella mia vita ho avuto l’opportunità di visitare gran parte del mondo. Sin da quando eravamo piccoli i nostri genitori erano soliti organizzare viaggi in luoghi meravigliosi e portarci me e mia sorella. Africa, Asia, gran parte dell’Europa e ovviamente Stati Uniti, Sudamerica. Non saprei fare una “classifica” dei luoghi più belli in cui sono stato, sarebbe ingeneroso verso quelli al di sotto del podio. Ognuno di essi è stato a suo modo speciale e in ognuno ho potuto imparare qualcosa di nuovo.
La “novità” è proprio la chiave di lettura principale dei viaggi: girando il mondo si vedono cose diverse da quelle a cui siamo abituati, si scoprono modi diversi di pensare o di agire, abitudini e comportamenti di cui non avevamo mai sentito parlare e, in chiave business, si apprezzano dinamiche o idee commerciali inedite che potrebbero essere tranquillamente importate nella nostra realtà locale.
Il mondo è fin troppo grande per pensare che le idee migliori, o tutto ciò che è realizzabile, sia stato concepito in un raggio di duecento chilometri da casa nostra.
Purtroppo la nostra mente è una macchina sì perfetta ma anche abitudinaria, e nella routine mette in atto una serie di meccanismi automatici che in qualche modo “circoscrivono” il pensiero, lasciando credere in maniera quasi istintiva che il modo di fare le cose è quello che si è sempre utilizzato, che la strada migliore sia quella percorsa ogni giorno, che le “nuove idee” in realtà non esistano, non paghino, o non portino a nulla.
E questo non è soltanto un danno ma anche un danno concreto alla nostra mente, un modus operandi vincolante che tende alla sua naturale implosione.
Inutile dire che si tratti di una dinamica che nessuno, men che meno un imprenditore, può permettersi. Ecco perché dico che il viaggio per un professionista è anzitutto l’occasione per vedere le cose sotto una nuova luce, lasciarsi ispirare dalla diversità e accogliere gli incontri e i contesti in cui ci si imbatte durante il viaggio come una splendida opportunità di crescita.
“Crescita” è un’altra parola chiave, perché non esiste libro, corso o nozione che possa eguagliare un viaggio in termini di conoscenza e apprendimento. Si potrebbe dire che spostarsi e vedere cose nuove sia proprio l’atto pratico di un libro studiato, ove quest’ultimo assume quindi il ruolo di una prova generale, utile a introdurre la vita nel mondo vero.
Per quanto mi riguarda, gli spunti ricevuti durante i miei viaggi sono diversi, legati soprattutto a due sfere: quella economica e quella umana. Ho visitato città che prosperano a ritmo incessante ma anche villaggi poverissimi. Nei primi il tempo sembra essere un costante nemico da rincorrere, nei secondi invece sembra essersi fermato e non avere poi l’importanza che tanti, soprattutto nel mondo occidentale, gli attribuiscono.
Vivere gli estremi ti porta inevitabilmente a concepire che la strada giusta sia a tutti gli effetti una via di mezzo, almeno nella maggior parte dei casi. Ho cercato quindi di trasferire queste riflessioni in tutte le aziende che ho gestito o per le quali ho ricoperto un ruolo importante. Ho imparato a gestire me stesso con la testa, e i dipendenti con il cuore. Ho scoperto che il mio tempo personale ha un valore che non può e non deve esprimersi soltanto nel lavoro. Sono arrivato a capire, infine, che tutte le opere maggiori che ho visto nei vari continenti non erano mai frutto del lavoro di un singolo, ma sempre di un gruppo, perché è il gruppo a fare la differenza all’interno di un progetto e, più in generale, di un’azienda.
Eppure sono consapevole di non essere nemmeno a un decimo del mio percorso, almeno in termini di ciò che posso ancora apprendere visitando posti nuovo o rivedendone altri con occhi diversi, magari anni dopo averli visitati la prima volta.
Perché in fondo è questo che siamo chiamati a fare come esseri umani: muoverci, esattamente come un’azienda. Che se non avanza, non può far altro che retrocedere.