Il tema della rapidità, nel mondo degli affari, ha un ruolo particolare e specifico. Si parla molto dell’importanza della velocità nel momento in cui determinati progetti vivono una fase delicata, o per esempio quando si prefigura un’occasione commercialmente rilevante che va colta in un tempo rapido per evitare che lo faccia un concorrente.
Oppure al contrario, quando notiamo qualcosa che non va nella nostra impresa, un processo che non funziona come dovrebbe o un dipendente maldisposto, dovremmo essere sufficientemente tempestivi da individuare la criticità nel minor tempo possibile, al fine di evitare che un problema piccolo diventi una valanga, con tutto ciò che ne consegue.
Eppure di velocità credo sia il caso di parlare anche da un punto di vista diverso, ossia quello, a mio avviso preponderante, in cui essa non solo non è necessaria ma anzi deleteria.
La rapidità di esecuzione è un principio tipico dell’approccio business anglosassone degli anni Ottanta, spesso declinato anche nella narrativa letteraria e cinematografica.
Il classico imprenditore di successo che prende decisioni difficili in pochi secondi e riesce a licenziare cento dipendenti o acquisire un’azienda in fallimento nell’arco di una manciata di minuti.
Ecco, anche tolti gli estremi, questo tipo di dinamica nella realtà non esiste oppure non funziona, perché in tutti i casi che non siano quelli espressi all’inizio essere rapidi può essere soltanto un problema.
Pensiamo all’avvio di un progetto, che può essere legato o meno al delicato processo di Passaggio Generazionale. Questo è qualcosa che richiede mediamente molto tempo, o comunque un tempo necessario a ché il suo svolgimento e la sua efficacia non siano danneggiati da comportamenti o azioni prematuri.
Ho visto con i miei occhi decine di aziende complicarsi la vita curando l’introduzione di nuove figure decisionali in modo sbagliato.
Inserire nell’organico persone nuove, soprattutto se giovani e collocate in un ruoli delicati, è qualcosa che richiede tempo. Esso è necessario poiché le persone che già lavorano all’interno dell’impresa devono avere uno spazio necessario per metabolizzare il cambiamento, per capirne i motivi e gli effetti, per apprezzarne i benefici.
La velocità, in questi casi, dà un solo risultato: inibisce la riflessione degli altri e spinge a sintetizzare i ragionamenti verso strade più semplici e che rispondono alle sensazioni “di pancia”.
“Quella persona è incapace / raccomandata / antipatica”
“È stata messa in quel ruolo perché amica / parente”
“Non ho intenzione di essere collaborativo con lui/lei”.
Questi sono esempi di ragionamenti frutto di un passaggio generazionale troppo rapido, nella quale i dipendenti non sono stati adeguatamente coinvolti e dove non c’è stato tempo e spazio per il confronto, per l’approfondimento, per la conoscenza.
Una sintesi, seppur di fantasia, di un processo nel quale è stata preferita la rapidità (immaginando che risparmiando tempo si sarebbero risparmiati capitali, per esempio) all’efficacia.
Uscendo dal discorso “passaggio generazionale” e Change Management in generale, scopriamo che il concetto non cambia: la velocità può rappresentare comunque un problema.
Pensiamo all’avvio di un progetto, come il lancio di un nuovo brand, di una nuova campagna di comunicazione o quant’altro.
Tutti processi che per loro natura richiedono tempo ma che per natura dell’imprenditore, spesso, tendono a voler essere completati in un tempo rapidissimo.
C’è infatti la convinzione, fra molti tra coloro che fanno il mio lavoro, che un progetto di monetizzazione debba uscire sul mercato il prima possibile. Come se quell’efficacia per qualche ragione debba per forza diventare un’urgenza, al fine di raggiungere il tanto sperato risultato in breve tempo.
Anche in questo caso, siamo completamente fuori strada. Una campagna di comunicazione richiede tempo per essere ben ponderata: va studiata la forma, il contenuto del messaggio, i destinatari, i canali da utilizzare, le formule per trasformare l’attenzione in conversione, la durata, l’adeguamento dei processi per accogliere l’impatto della campagna a seconda del concretizzarsi dei vari scenari.
È impensabile realizzare tutto questo lavorando “in velocità”. Si tratta di un approccio che mina la qualità del lavoro, lascia poco spazio alla riflessione (e ai “tempi morti”, che sono fondamentali per concepire se qualcosa sta andando nella direzione sbagliata).
Ecco, non si ha il tempo di capire se c’è un errore di fondo che sulle prime non è stato notato. E questo è incredibilmente deleterio perché in ogni caso il mercato troverà quell’errore e lo farà scontare all’azienda, non premiandola come essa vorrebbe, quando sarebbe bastato prendersi del tempo in più per capire dove fosse la criticità della campagna e sistemarla.
In buona sintesi, la velocità è un mito, una metrica di vanità di cui nessun imprenditore ha davvero bisogno, e che può essere un alleato solo in pochissimi contesti, molti meno di quelli in cui può essere il peggior nemico.
Teniamone sempre conto.